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L'ATTENZIONE storica per le vicende d'emigrazione è come un risveglio tardivo dopo un lungo sonno, interrotto da brevi e vigili pause. Nonostante l'opera di alcuni avamposti universitari e di ricerca, ormai noti e consolidati a livello internazionale, si è consentita, infatti, un'atroce distruzione di memoria, che ha cancellato qualche volta completamente le tracce di milioni di persone, che pure hanno dato un contributo importante alla costruzione del mondo contemporaneo.

Il rammarico è ancora più profondo per un'area come il Molise, tra le prime e più intense tributarie del grande fiume dell'emigrazione, che resta il segno più profondo della sua storia più recente. Oggi, sotto la spinta dei grandi flussi di immigrazione che stanno fasciando la terra, sembra ridestarsi la curiosità di sapere, di interrogarsi sui percorsi di coloro che hanno aperto i sentieri dell'incontro tra gente e culture diverse e contribuito alla modernizzazione ed allo sviluppo di importanti paesi. "Non potremo mai capire fino in fondo questo paese, se non capiremo cosa significa essere stati migranti" ha detto un importante sociologo americano, parlando degli Stati Uniti. E non è un caso che proprio negli USA sia sorto il più importante - e affascinante - centro di memorie dell'emigrazione, Ellis Island, nel quale l'epico approdo di milioni di persone nei cinquant'anni a cavallo del '900 è stato declinato con grande sensibilità ed attenzione per i risvolti umani di sacrificio e di intrapresa.
Sulla scia di questa esemplare realizzazione, si stanno collocando istituzioni di altri paesi, tra cui il nostro. Si sente parlare, ad esempio, di un progetto di museo dell'emigrazione da realizzare nel porto di Napoli, nei pressi del molo dell'Immacolatella, da dove sono passati milioni di meridionali diretti verso le Americhe. Finalmente, ma faremo ancora in tempo? Si troverà quello che sarà possibile trovare, forse non poco, ma non si potranno più salvare le storie di vita di coloro che sono scomparsi e la conoscenza dei percorsi familiari, che sono la fonte più ricca e il modo più giusto per riconoscere il valore di quelle scelte e di quelle esperienze.
Da questo sfondo di disssolvenze e di perdita di memoria storica si distinguono gli Scalabriniani, come sono più comunemente chiamati i componenti dell'Ordine di S. Carlo, fondato dal beato Giovanni Battista Scalabrini, il "padre dei migranti". Testimone delle prime grandi migrazioni della seconda metà del secolo scorso, aveva elevato la sua voce di vescovo in difesa di coloro che erano attirati in plaghe lontane ed inospitali senza alcuna tutela e senza alcuna preoccupazione umanitaria. Nell'appassionata opera del prelato, all'impegno di carità e di solidarietà umana si combinava un'intuizione che avrà molta fortuna nei tempi a noi più vicini, quella cioé che i migranti non sono un problema sociale e di costume, come ritenevano i benpensanti del tempo, ma una risorsa destinata a dare frutti copiosi sul terreno dello sviluppo e di una socializzazione più aperta. Gli Scalabriniani, sul sentiero di un simile insegnamento, hanno indirizzato la loro missione verso le zone di più densa concentrazione di immigrati, rispondendo con la loro presenza ad esigenze di ordine religioso, sociale, culturale. All'impegno di sostegno caritativo e di evangelizzazione, si è accompagnata la costante ricerca di elementi di identità culturale del migrante per accrescerne dignità e autonomia.
Per questa ragione, gli Scalabriniani hanno più di recente realizzato una rete mondiale di Centri di studi e di raccolta di memorie riguardanti l'emigrazione italiana nel mondo, centri che si avvalgono delle migliori competenze nella materia. Questa rete si estende da Roma ad alcune aree europee, dall'Europa al Nord America, dal Nord America al Sud America. Il Centro di Studi Latino-Americani sull'Emigrazione è uno dei più importanti del mondo. Occupa un edificio della vecchia zona portuale, oggi recuperata in modo gradevole ed arioso. Al suo interno si muovono discreti frequentatori della sua importante biblioteca e giovani ricercatori che lavorano ai progetti promossi dal Centro. Nelle stanze più interne e riservate vi sono i responsabili scientifici ed organizzativi. Il segretario è padre Mario Santillo, un giovane sacerdote dallo sguardo sereno e la voce dolce, figlio di un emigrato di Toro in Argentina.
Il padre di Mario, Mercurio, aveva abbandonato diciassettenne le attività agricole e si era inserito con alcuni stretti parenti in una catena di richiami che aveva portato a Buenos Aires diverse famiglie del sue paese. Arrivato nella capitale sudamericana, aveva condiviso con alcuni compaesani, come usava per gli uomini soli, una stanza dove si provvedeva in comune alle necessità quotidiane, e subito aveva trovato lavoro in una fabbrica di macchine da scrivere, la Remington. Lì aveva conosciuto una compagna di lavoro. Giovanna Luis Diaz, proveniente da un regione argentina di provincia, e se l'era sposata, con rammarico dei parenti, che invece avevano realizzato i loro matrimoni in un ambito strettamente endogamico.
Dall'unione di Mercurio e Giovanna erano venuti tre figli, due maschi e una donna. Mario cresce, dunque, in una famiglia mista, nella quale il contatto tra due culture si respira nelle relazioni quotidiane. La cerchia delle amicizie è prevalentemente torese e italiana, ma a casa la madre ed i ragazzi parlano in spagnolo, il padre in dialetto. Per la verità, dopo alcuni anni Giovanna è in grado di parlare correntemente il dialetto di Toro, ma questo solo in parte riduce nei suoi confronti la diffidenza dei parenti, che continuano a regolare le loro relazioni sociali sulla base di un forte richiamo alle tradizioni di origine. Ne è un segno l'associazione torese dedicata al patrono del paese, S. Mercurio, che ben presto si costituisce e che ogni anno organizza la festa alla quale partecipano la comunità dei compaesani e gli altri immigrati che vivono nello stesso quartiere. Questa persistenza di richiami di tradizione non è dovuta alla difficoltà di penetrare nella società bonaerense, che se si esclude qualche "Tano" o "Mangiacicorie" inviato a immigrati italiani è abbastanza aperta, ma piuttosto alla ristrettezza della cultura contadina di partenza. Per Mario la festa di S. Mercurio è non solo l'occasione di un più ampio contatto con l'articolato mondo degli immigrati al quale egli stesso sente di appartenere, ma anche il modo come, attraverso la sua fantasia di ragazzo, s'inoltra, senza tuttavia restarne prigioniero, nella tradizione e nel senso comune della terra da cui suo padre proviene. S. Mercurio, il coraggioso angelo guerriero, con la grande spada eretta contro il Male ed i peccatori diventa il compagno di un lungo viaggio che lo porta fino a Toro e lo aiuta a comprendere i valori ed i limiti del bagaglio etico e culturale che gli emigranti a lui più vicini hanno portato con sé.
Questa ricerca si sviluppa e si consolida con la progressione degli studi, che Mario compie nella scuola italiana, bilingue, fino ai livelli superiori, e soprattutto con la vocazione sacerdotale, che ben presto s'indirizza verso l'impegno missionario nelle realtà d'emigrazione. E' come se la sua formazione si svolgesse su un doppio binario: da un lato il contatto, intenso e umanamente vivificante, con la sua gente, gli immigrati di Toro e meridionali, legati tenacemente alle loro tradizioni: le grandi feste familiari, quelle patronali, la preparazione delle provviste in casa, la "tàvele de S.Giuseppe", le "cancellate" e i "mescuttilli" nei giorni di festa, l'amicizia profonda ed il senso di solidarietà; dall'altro la crescente consapevolezza delle contraddizioni sociali e culturali che si annodano intorno alla condizione degli immigrati e la ricerca di una risposta ad esse in una prospettiva di fede. Due eventi riassumono e simboleggiano questo duplice percorso: il primo viaggio a Toro, con il cuore gonfio di emozione, dove tutto assomiglia ai racconti del padre e dei compaesani immigrati a Buenos Aires, dove tutto - le feste, l'uccisione del maiale, i rapporti di "creanza" tra le persone - si svolge secondo forme e cadenze già sedimentate nell'immaginario di questo giovane figlio d'emigrante; la tesi di laurea, "Dialettica dell'emigrazione", nella quale egli riassume la sintesi critica delle sue esperienze di vita e delle sue riflessioni sull'emigrazione. La tesi contiene un'aperta critica alle scuole americane e francesi per la pretesa di inglobare i figli degli immigrati in processi di assimilazione che ne riassorbono l'identità e, nello stesso tempo, un'indicazione a favore di un'integrazione dialettica, nella quale il pieno inserimento nella società di accoglimento si concili con il rispetto delle culture originarie.
Ordinato sacerdote nell'85, trascorre i primi due anni in una parrocchia del Cile, altri due anni in Italia per approfondire gli studi teologici, approda successivamente al Centro di studi voluto con grande convinzione da padre Luigi Favero, eletto successivamente Superiore degli Scalabriniani. Ancora un intermezzo in Lussemburgo, in missione in una parrocchia frequentata da italiani e portoghesi, e infine il ritorno a Buenos Aires per assumere uno dei più alti incarichi del Centro, quello di Segretario. In questa funzione è chiamato a gestire alcuni grandi progetti di storia dell'emigrazione. Quello più importante sul piano internazionale è la costruzione di una banca dati contenente all'incirca tre milioni di nomi, quelli di coloro che sono approdati in Argentina da diversi paesi del mondo dal 1882 a 1926. Un secondo progetto - Metropolis - riguarda l'impatto che l'immigrazione ha avuto nelle grandi città, dove, sia detto per inciso, sono confluiti la quasi totalità dei molisani. Un altro ancora, a testimonianza di quanto la ricerca possa contribuire all'impegno di riforma sociale, è rivolto contro la pratica di discriminazione che si riversa sugli "uomini dalla pelle scura", i frontalieri peruviani, cileni, boliviani che accorrono per svolgere i lavori più sacrificati e marginali.
Negli ultimi tempi, il Centro corrisponde anche alle esigenze delle regioni italiane che vogliano recuperare le linee storiche della loro emigrazione. Mosche bianche, ancora, ma è importante che qualcuno s'incominci a muovere. Nessun segnale, ancora, dal Molise e su questo Mario Santillo non nasconde un qualche cruccio. Non c'è molto tempo da perdere, infatti, perché oggi sono ancora vivi i protagonisti di quelle storie che possono gettare un ponte tra la terra di partenza e quella di arrivo. E poi ci sono altri soggetti interessanti, i giovani nati dai molisani, che, a differenza dei loro coetanei di aree più fortunate, il Canada, gli Usa, il Venezuela, l'Australia, non sono mai ritornati, eppure hanno una sincera curiosità per le loro radici perché educati ad un senso molto vivo della famiglia. Portarli in visita ai paesi da dove sono partiti i loro padri e i loro nonni significherebbe forse motivarli per il futuro; coinvolgerli in progetti di formazione potrebbe significare aprire prospettive feconde per loro e per noi. La Regione, per Santillo, dovrebbe essere più presente anche per aiutare le associazioni ad evolversi dalle caratterizzazioni più primitive a forme di presenza più legate alle vicende attuali e per cercare di metterle al riparo da personalismi e frazionismi che non mancano. Varrebbe la pena, insomma, investire su questa parte di sé che si è trasferita in luoghi lontani e che ancora può avere un rapporto attivo con l'organismo originario. Anche perché "i molisani sono gente buona, umile, semplice e di loro si parla poco a confronto con gli emigrati di altre regioni. Fate conoscere i molisani che vivono nel mondo, aiutateli ad affermare la loro identità. Se lo meritano".

Norberto Lombardi

Da "NUOVO MOLISE" - Molisani nel mondo - 1999

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