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Notizia numero 54 COSTUME DI TORO (Cenni su miseria e emigrazione)
Cari amici, nel sito internet " "Penne e pennivendoli molisani" abbiamo trovato questa pagina che riguarda il nostro paese. La copiamo, con la speranza che interessi. Saluti

Sfogliando vecchie fotografie/2
Costume di Toro (Cenni su miseria e emigrazione)




Tra le tante specie umane che fanno fatica ad allignare dalle nostre parti, c’è anche quella del commediografo, l’uomo chiamato a fustigare i costumi magari strappando qualche ombra di sorriso ai fustigati spettatori. Un eventuale commediografo molisano, a cavallo tra Otto e Novecento non avrebbe potuto evitare di fissare lo sguardo su un personaggio che sembrava tagliato apposta per calcare le scene: la moglie dell’americano. Ovvero le mogli degli emigranti che a partire dal 1870 si erano riversati sulle sponde d’oltre Atlantico, statunitensi, argentine e brasiliane.

Per arrivare, qualche dollaro arrivava, e le buone donne ne approfittavano volentieri. Toccava a loro dare un senso alle macellerie che nei villaggi molisani onoravano l’insegna, ammazzando a volte sì a volte no un agnello o un capretto. Toccava sempre a loro premiare la fatica del pescivendolo che lasciava il mare per spingersi sui primi contrafforti dell’interno. E così con la sarta, con il calzolaio, per la veste o il paio di scarpe nuove: poveri lussi di povera gente che eccitavano l’invidia e la maldicenza dei compaesani.

L’estro popolare ha immortalato le mogli degli americani in canzoni satiriche, che se non hanno ispirato nessun commediografo non sfuggirono all’occhio di falco di Benedetto Croce. Come quella che si cantava a Toro, per esempio:

I meglière di merrecane
vanne na chiesie cu sètte suttane,
z'addenucchiene a pide a Dje:
- Manne 'a munéte, marite mje!

'A munéte che m'ha' mannate
m'a so' magnate cu 'nnammurate,
m'a so' magnate cu 'na bona salúte:
manne 'a munéte, curnúte fettúte!

Cu 'ndindirindì, cu 'ndindirindà,
che bèlla guaglióna scarcioffilà.

E fin in qui il sorriso. Ma il personaggio si staglia su uno sfondo tutt’altro che allegro. Con l’emigrazione molisana di fine Ottocento si dà sbocco a un fiume di manodopera a prezzo di fame che aveva fin lì fatto la fortuna esclusiva dei proprietari terrieri e dei maggiorenti locali.

Non sorprende che dai palazzotti di famiglia, spuntassero storiografi come il torese Luigi Alberto Trotta che, ergendosi a ferreo difensore degli interessi personali, scriveva nel 1879: “L’emigrazione, che spopola al presente il bel paese, non poteva esser nota al tempo, di che si è discorso [metà Ottocento]; non poteva perché mancava la cagione che ha prodotto oggi questo fenomeno”. E la cagione, secondo lui, andava indicata in “Tanti disagi civili e tanta corruzione [che] hanno diviato da’ loro obietti giudizi e sentimenti, han separato l’uomo da se stesso, dalla patria, da Dio; han fatto diventare la vita un peso: l’uomo ora si uccide di propria mano e gitta quel peso a un tratto; ora abbandona il luogo ove nacque, e si espone a’ pericoli di finire in modo incerto, nella fuga disperata, che imprende per cercare altrove quel bene, che già il suolo di nascita gli forniva con sufficienza”. Ancora più efferatamente del Trotta, altri proprietari terrieri molisani identificavano le cause del flusso migratorio per le Americhe nella pretesa indole vagabonda dei contadini e nella pretesa moda, da essi condannata con un neologismo di dubbia eleganza, ulissismo, che sa di sbocco di bile e ostentazione di letture classiche.

Sorprende piuttosto la memoria corta del Trotta che, in un libello anonimo ma sicuramente riconducibile alla sua penna, non si era risparmiato a descrivere la miseria in cui vivevano ed erano vissuti i propri concittadini.

“La miseria - si legge nel libello - fu lunga, grave, straziante… Si videro contadini, per sdigiunare, dopo un giorno d’inedia, scavare le fave e altre civaie, piantate di recente e mangiarne, raccattare sul selciato delle vie dell’abitato buccie [sic] di pere e torsi d’ortaggi e sbocconcellarli come capre, brucare erbe per cuocerle e mangiarle sciocche, non avendo soldi per comperare il sale e insaporarle”.

Ancora: “Il misero non di rado non aveva l’arnese in buono stato per coprire la schiacciata [di granturco cotta nel mezzo del focolare] e allora sostituiva ad esso delle foglie di cavolo, le quali poneva sotto un informe avanzo di quel coso, tutto sgangherato e squarciato e a frammenti, tra i quali penetrava e si attaccava forte la cenere nella pasta cruda e, cotta poscia, vi formava orlicci così ruvidi da rendere quella vivanda veramente schifa”.

E ancora: “Frotte di donne della poveraglia correvano a disertare [i vigneti]. Dopo racimolato e ribruscolato coglievano i fichi immaturi, quanti vi erano rimasti di su gli alberi. N’empivano (senza toglierseli dal seno, se sono pochi) i grembiuli, prendendoli per le due cocche da basso, se in vece, molti, se li toglievano, ne formavano un batuffolo e se lo ponevano in testa, o pure empivano certi corbelli logori e piatti, detti minelle. Erano roba dura, ostica tali fichi, e pel loro latte brucente e drastico, non commestibili e li cocevano. Cotti alla meglio e diventati teneri un poco, non saporosi, li mangiavano da capre”.

Come se non bastasse: “Si videro molti, privi di giacche, pigliarle a imprestito per far visite e mancanti di calzoni, andare in chiesa e restarvi in mutande e le donne, più che gonne e busti, vestire cenci, e i brandelli svolazzanti scoprire le nudità delle persone. I braccianti, non essendo accettati a lavorare, emigrar nella Capitanata, e lasciar l’ossa stanche nelle paludi di Lésina e in altre terre, dove grassa la febbre di malaria, alimentata dalle acque stagnanti! E tornare seminudi, sudici lerci, come vi andarono, solo più lividi, per peggioramento di salute. Se mendicavano non raccattavano il necessario. Qualcheduno morire di febbre, per non avere potuto comperare il chinino, che il Comune non somministrava”.

Un’ultima nera annotazione: “Grama pure traeva la vita quello che possedeva alcuna cosa e chi faceva una professione. Costoro avevano un abito unico, non mai sostituito da un altro; ma l’indossavano solo nelle occasioni di visite, di solennità, di festa. Questi compagni indivisibili di tali possidentucci, i loro abiti, non furono mai rinnovati, ove fossero di panno e di forma, buoni e forti, poi che furono indossati tutta la vita dalla persone cui appartenevano finivano con loro, dopo morte, rivestendone la spoglia. Che se fossero stati di pregio e non logori, si legavano per testamento a un parente o a un amico”.

Questo, nel resoconto di Luigi Alberto Trotta, che per carità di patria dimentica di accennare al colera del 1837, il quadro della miseria di Toro, ricondotta dal possidente ai “capitali scarsi e impiegati in mutui onerosi, le industrie sconosciute, il suolo incolto e sterilito perché il povero non lo ingrassava, non curandosi né pure del concio, e faceva una coltura alla superficie”. Si consideri, infine, la turba di quei diseredati chiamata invano a provvedere al sostentamento dei rari professionisti, in genere, e del medico, in particolare, con un introvabile tomolo di grano a famiglia, e la scena e i personaggi della commedia tragica sono rifiniti in ogni dettaglio.





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